[Pagina precedente]...tribuno per avere sospettato il popolo che si facesse tiranno della patria. Il quale Servilio sedendo con molti a torno, uno ch'è nel mezzo mostra Spurio in terra morto, in una figura fatta con molta arte.
Ne' tondi poi, che sono ne' cantoni dove sono le otto figure, sono molti uomini stati rarissimi per avere difesa la patria. Nella parte principale è il famosissimo Fabio Massimo a sedere et armato. Dall'altro lato è Speusippo duca de' Tegeti il quale, volendogli persuader un amico che si levasse dinanzi un suo avversario et emulo, rispose non volere, da particolar interesse spinto, privare la patria d'un sì fatto cittadino. Nel tondo, che è nell'altro canto che segue, è da una parte Celio pretore, che per avere combattuto contra il consiglio e volere degl'aruspici, ancor che vincesse et avesse la vittoria fu dal senato punito: et a lato gli siede Trasibulo che, accompagnato da alcuni amici, uccise valorosamente trenta tiranni per liberar la patria: e questi è un vecchio raso con i capegli bianchi, il quale ha sotto il suo nome, sì come hanno anco tutti gl'altri. Dall'altra parte, nel cantone disotto in un tondo, è Genuzio Cippo pretore, al quale, essendosi posto in testa un ucello prodigiosamente con l'ali in forma di corna, fu risposto dall'oracolo che sarebbe re della sua patria, onde egli elesse, essendo già vecchio, d'andare in esilio per non soggiogarla. E perciò fece a costui Domenico uno ucello in capo. Appresso a costui siede Caronda, il quale essendo tornato di villa et in un subito andato in senato senza disarmarsi, contra una legge che voleva che fusse ucciso chi entrasse in senato con arme, uccise se stesso, accortosi dell'errore. Nell'ultimo tondo dall'altra parte è Damone e Pitia, la singolar amicizia de' quali è notissima, e con loro è Dionisio tiranno di Sicilia. Et allato a questi siede Bruto, che per zelo della patria condannò a morte due suoi figliuoli perché cercavano di far tornare alla patria i Tarquini. Quest'opera, adunque, veramente singolare, fece conoscere a' sanesi la virtù e valore di Domenico, il quale mostrò in tutte le sue azzioni arte, giudizio et ingegno bellissimo.
Aspettandosi, la prima volta che venne in Italia l'imperator Carlo V, che andasse a Siena per averne dato intenzione agl'ambasciadori di quella republica, fra l'altre cose che si fecero magnifiche e grandissime per ricevere un sì grande imperatore, fece Domenico un cavallo di tondo rilievo, di braccia otto, tutto di carta pesta e voto dentro. Il peso del qual cavallo era retto da un'armadura di ferro e sopra esso era la statua di esso imperador armato all'antica con lo stocco in mano, e sotto aveva tre figure grandi, come vinte da lui, le quali anche sostenevano parte del peso, essendo il cavallo in atto di saltare e con le gambe dinanzi alte in aria, e le dette tre figure rapresentavano tre provincie state da esso imperador domate e vinte. Nella quale opera mostrò Domenico non intendersi meno della scultura che si facesse della pittura. A che si aggiugne che tutta quest'opera aveva messa sopra un castel di legname alto quattro braccia, con un ordine di ruote sotto, le quali mosse da uomini dentro, erano fatte caminare. Et il disegno di Domenico era che questo cavallo, nell'entrata di Sua Maestà , essendo fatto andare come s'è detto, l'accompagnasse dalla porta infino al palazzo de' Signori e poi si fermasse in sul mezzo della piazza. Questo cavallo, essendo stato condotto da Domenico a fine, che non gli mancava se non esser messo d'oro, si restò a quel modo, perché Sua Maestà per allora non andò altrimenti a Siena, ma coronatasi in Bologna si partì d'Italia e l'opera rimase imperfetta. Ma nondimeno fu conosciuta la virtù et ingegno di Domenico, e molto lodata da ognuno l'eccellenza e grandezza di quella machina, la quale stette nell'Opera del Duomo da questo tempo insino a che, tornando Sua Maestà dall'impresa d'Africa vittoriosa, passò a Messina e di poi a Napoli, Roma e finalmente a Siena, nel qual tempo fu la detta opera di Domenico messa in sulla piazza del Duomo, con molta sua lode.
Spargendosi dunque la fama della virtù di Domenico, il prencipe Doria, che era con la corte, veduto che ebbe tutte l'opere che in Siena erano di sua mano, lo ricercò che andasse a lavorare a Genova nel suo palazzo, dove avevano lavorato Perino del Vaga, Giovan Antonio da Pordenone e Girolamo da Trevisi. Ma non poté Domenico prometter a quel signore d'andare a servirlo allora, ma sì bene altra volta, per avere in quel tempo messo mano a finir nel Duomo una parte del pavimento di marmo, che già Duccio pittor sanese aveva con nuova maniera di lavoro cominciato. E perché già erano le figure e storie in gran parte disegnate in sul marmo, et incavati i dintorni con lo scarpello e ripieni di mistura nera, con ornamenti di marmi colorati attorno, e parimente i campi delle figure, vidde con bel giudizio Domenico che si potea molto quell'opera migliorare, per che, presi marmi bigi, acciò facessino nel mezzo dell'ombre, accostate al chiaro del marmo bianco e profilate con lo scarpello, trovò che in questo modo col marmo bianco e bigio si potevano fare cose di pietra a uso di chiaro scuro perfettamente. Fattone dunque saggio, gli riuscì l'opera tanto bene e per l'invenzione e per lo disegno fondato e copia di figure, che egli a questo modo diede principio al più bello et al più grande e magnifico pavimento che mai fusse stato fatto, e ne condusse a poco a poco mentre che visse una gran parte. D'intorno all'altare maggiore fece una fregiatura di quadri, nella quale, per seguire l'ordine delle storie state cominciate da Duccio, fece istorie del Genesi, cioè Adamo et Eva, che sono cacciati del Paradiso e lavorano la terra; il sagrifizio d'Abel e quello di Melchisedech. E dinanzi all'altare è in una storia grande Abraam che vuole sacrificare Isaac, e questa ha intorno una fregiatura di mezze figure, le quali portando varii animali, mostrano d'andare a sacrificare. Scendendo gli scalini, si truova un altro quadro grande, che accompagna quel di sopra: nel quale Domenico fece Moisè che riceve da Dio le leggi sopra il Monte Sinai; e da basso è quando trovato il popolo, che adorava il vitello dell'oro, si adira e rompe le tavole, nelle quali era scritta essa legge.
A traverso della chiesa, dirimpetto al pergamo, sotto questa storia è un fregio di figure in gran numero, il quale è composto con tanta grazia e disegno, che più non si può dire. Et in questo è Moisè, il quale percotendo la pietra nel deserto, ne fa scaturire l'acqua e dà bere al popolo assetato, dove Domenico fece, per la lunghezza di tutto il fregio disteso, l'acqua del fiume della quale in diversi modi bee il popolo con tanta e vivezza e vaghezza, che non è quasi possibile imaginarsi le più vaghe leggiadrie e belle e graziose attitudini di figure, che sono in questa storia: chi si china a bere in terra, chi s'inginocchia dinanzi al sasso che versa l'acqua, chi ne attigne con vasi e chi con tazze, et altri finalmente bee con mano. Vi sono oltre ciò, alcuni che conducono animali a bere con molta letizia di quel popolo. Ma fra l'altre cose vi è maraviglioso un putto, il quale preso un cagnolo per la testa e pel collo, lo tuffa col muso nell'acqua, perché bea; e quello poi, avendo bevuto, scrolla la testa tanto bene, per non voler più bere, che par vivo. Et insomma questa fregiatura è tanto bella, che per cosa in questo genere non può esser fatta con più artifizio, atteso che l'ombre e gli sbattimenti che hanno queste figure sono più tosto maravigliosi che belli. Et ancora che tutta quest'opera, per la stravaganza del lavoro, sia bellissima, questa parte è tenuta la migliore e più bella. Sotto la cupola è poi un partimento esagono, che è partito in sette esagoni e sei rombi. De' quali esagoni ne finì quattro Domenico, innanzi che morisse, facendovi dentro le storie e sagrifizii d'Elia, e tutto con molto suo commodo, perché quest'opera fu lo studio et il passatempo di Domenico, né mai la dismesse del tutto per altri suoi lavori. Mentre dunque che lavorava quando in quella e quando altrove, fece in San Francesco, a man ritta entrando in chiesa, una tavola grande a olio, dentrovi Cristo che scende glorioso al limbo a trarne i Santi Padri, dove fra molti nudi è una Eva bellissima; et un ladrone, che è dietro a Cristo con la croce, è figura molto ben condotta; e la grotta del limbo et i demonii e fuochi di quel luogo sono bizzarri affatto.
E perché aveva Domenico oppenione che le cose colorite a tempera si mantenessino meglio che quelle colorite a olio, dicendo che gli pareva che più fussero invecchiate le cose di Luca da Cortona, de' Pollaiuoli e degli altri maestri che in quel tempo lavorarono a olio, che quelle di fra' Giovanni, di fra' Filippo, di Benozzo e degli altri, che colorirono a tempera inanzi a questi, per questo, dico, si risolvé, avendo a fare una tavola per la Compagnia di San Bernardino, in sulla piazza di San Francesco, di farla a tempera, e così la condusse eccellentemente, facendovi dentro la Nostra Donna con molti Santi. Nella predella, la quale fece similmente a tempera et è bellissima, fece San Francesco che riceve le stimmate, e Sant'Antonio da Padova, che per convertire alcuni eretici fa il miracolo dell'asino che s'inchina alla sacratissima ostia, e San Bernardino da Siena, che predica al popolo della sua città in sulla piazza de' Signori. Fece similmente nelle facce di questa Compagnia due storie in fresco della Nostra Donna, a concorrenza d'alcune altre che nel medesimo luogo avea fatte il Soddoma. In una fece la visitazione di S. Elisabetta e nell'altra il transito della Madonna con gl'Apostoli intorno. L'una e l'altra delle quali è molto lodata.
Finalmente, dopo essere stato molto aspettato a Genova dal prencipe Doria, vi si condusse Domenico, ma con gran fatica, come quello che era avezzo a una sua vita riposata e si contentava di quel tanto che il suo bisogno chiedeva senza più, oltreché non era molto avezzo a far viaggi, perciò che, avendosi murata una casetta in Siena et avendo fuor della porta a Comollia un miglio una sua vigna, la quale per suo passatempo facea fare a sua mano e vi andava spesso, non si era già un pezzo molto discostato da Siena. Arrivato dunque a Genova, vi fece una storia a canto a quella del Pordenone, nella quale si portò molto bene, ma non però di maniera che ella si possa fra le sue cose migliori annoverare. Ma perché non gli piacevano i modi della corte et era avezzo a viver libero, non stette in quel luogo molto contento, anzi pareva in un certo modo stordito. Per che, venuto a fine di quell'opera, chiese licenza al prencipe e si partì per tornarsene a casa; e passando da Pisa per vedere quella città , dato nelle mani a Batista del Cervelliera, gli furono mostrate tutte le cose più notabili della città , e particularmente le tavole del Sogliano et i quadri che sono nella nicchia del Duomo dietro all'altare maggiore. Intanto Sebastiano della Seta Operaio del Duomo, avendo inteso dal Cervelliera le qualità e virtù di Domenico, disideroso di finire quell'opera, stata tenuta in lungo da Giovanni Antonio Sogliani, allogò due quadri della detta nicchia a Domenico, acciò gli lavorasse a Siena e di là gli mandasse, fatti, a Pisa; e così fu fatto. In uno è Moisè, che trovato il popolo avere sacrificato al vitel d'oro, rompe le tavole; et in questo fece Domenico alcuni nudi che sono figure bellissime; e nell'altro è lo stesso Moisè, e la terra che si apre et inghiottisce una parte del popolo, et in questo anco sono alcuni ignudi, morti da certi lampi di fuoco, che sono mirabili. Questi quadri condotti a Pisa furono cagione che Domenico fece in quattro quadri, dinanzi a questa nicchia, cioè due per banda, i quattro Evangelisti, che furono quattro figure molto belle. Onde Sebastiano della Seta, che vedeva d'esser servito presto e bene, fece fare dopo questi a Domenico la tavola d'una delle cappelle del Duomo, avendone infino allora fatte quattro il Sogliano. Fermatosi dunque Domenico in Pisa, fece nella detta...
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